Istruzioni per entrare in un quadro

Se Agnès Varda fosse ancora viva e parlasse veneziano abiterebbe in un appartamento al quarto piano di un condominio di Mestre. Rossana Molinatti ha più o meno la stessa età della regista francese e quasi lo stesso caschetto a incorniciarle il viso rotondo scavato dalle rughe. Uno stereo che non riesco a vedere suona Chopin, il soggiorno è invaso dalla luce. Gli scaffali della libreria traboccano di volumi e sorreggono alcune sculture di Toni Benetton, su un tavolino dozzine di pennelli spuntano da grossi secchi di vernice vuoti. Ritti in fondo alla stanza ci sono tre enormi tableau vivant, grandi come statue: L’Urlo di Munch, Il grande metafisico di De Chirico e Guernica di Picasso. Fanno parte delle creazioni che Rossana Molinatti da quarant’anni a questa parte realizza in occasione del Carnevale di Venezia, una diversa per ogni edizione. In quei giorni di festeggiamenti e sfilate ci si infila dentro, come fosse un travestimento bello e buono, e si muove tra Piazza San Marco e le calli, destando ammirazione e qualche sussulto.

“La prima in assoluto fu Paloma di Picasso” mi dice mentre ci accomodiamo sul divano, davanti alle maschere. “Ne parlarono tutti, i giornali, le tv: nell’81 nissun se pensava de far na cossa del genere”. A un italiano perfetto alterna frequenti coloriture dialettali. Si tratta di un quadro di Picasso del ’33, mi spiega quando mi vede perplesso. “Invece di mettermi una maschera senza senso ho deciso d’indossare un quadro: volevo dimostrare a tutti che l’arte riempie la vita”. È una folgorazione, un esperimento dell’ultimo minuto: “Un mio amico marangòn da soàsa mi ha fatto una cornice su misura e io ho realizzato il vestito la sera prima. Il cappello di Paloma l’ho fatto con la cartapesta, la camicetta l’ho dipinta coi colori per stoffa”. Mi mostra le foto dell’epoca in cui c’è lei che regge una grande cornice di legno. Sul viso ha un trucco destrutturato alla maniera cubista e in testa un copricapo a forma di pesce infilzato da una forchetta. L’esperimento funziona, ma a metà: Paloma Molinatti è accerchiata dalle macchine fotografiche dei turisti, alcuni riconoscono il quadro. Il grande pubblico però non coglie la citazione, soprattutto gli italiani.
“Dei venesiani non ne parliamo! Ghemo fato parfin el Leon de San Marco!”. Qualche anno dopo infatti cerca di far presa sull’identità veneziana, portando in piazza il celebre Leone di San Marco, simbolo della città da 600 anni. Lei faceva il libro e una sua amica il leone. In alcuni punti strategici si fermavano e il leone metteva la zampa sul volume. “Ci crede che i veneziani non l’hanno riconosciuto e gli stranieri sì?”. Ma lei non si arrende. L’anno dopo ci riprova con San Giorgio e il drago di Paolo Uccello, poi con La Dama e l’Unicorno, arazzo fiammingo, ma la situazione non cambia. Allora tenta con un particolare de Il ratto d’Europa di Paolo Veronese, dipinto custodito al Palazzo Ducale di Venezia. Ne riproduce magistralmente la scena in cui Giove, trasformatosi in toro, rapisce sulla groppa la bella Europa: il massimo che ottiene è essere scambiata per La Bella e la Bestia.

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