Nel mese di settembre di 30 anni fa la morte, con cinico tempismo, non permise a Italo Calvino di tenere il suo ciclo di sei lezioni presso l’Università di Harvard, passate poi alla storia come Lezioni Americane. Correva l’anno 1985. La sesta lezione era ancora in fase di progettazione, le altre ben imbastite e pronte per lasciare senza fiato il mondo accademico e umanistico. Il suo intento principale era quello di mettere nero su bianco i canoni fondanti la letteratura del terzo millennio e contestualmente cercare d’interpretare il cambiamento epocale che stavano subendo i media e la comunicazione. E parlando di letteratura parla anche di questi. Il web era lontano, i social media inconcepibili e ancora nei cinema si fumava. Ma con i suoi canoni Calvino, oltre a indicare la strada verso l’unico tipo di letteratura per lui perpetrabile, è stato in grado di predire funzionalità ed essenza di Twitter. Perché in fondo un tweet è un racconto (breve).
Comincia con la leggerezza, il primo e più importante dei canoni da lui rintracciati, intesa come sottrazione di peso, di tutto ciò che risulta superfluo. Una particella leggera e quasi invisibile che si contrappone alla pesantezza del mondo grave e circostante. E cos’è un tweet se non una leggera e necessaria trasposizione di un mondo pesante e gravido di fisicità. Un tweet è un brevissimo racconto a cui è stato tolto tutto il peso accessorio.
E qual è una delle caratteristiche che determinano l’efficacia o il fallimento di un tweet se non la rapidità? Far presa immediata sul lettore è indispensabile: nella felice riuscita dell’espressione verbale risiede l’importanza del secondo canone, nella “frase in cui ogni parola è insostituibile, dell’accostamento di suoni e di concetti più efficace e denso di significato” (LA 56).
A questo scopo un tweet e un racconto devono essere scritti dosando maniacalmente le parole, che devono essere in grado di evocare immagini e di essere a tal punto precise da riuscire a dire anche il non detto. Icasticamente, direbbe Calvino. In quel “magma indifferenziato” di tweet solo quell’unicuum dotato di esattezza sarà degno di essere ritwittato.
Talmente esatto da trasformarsi in qualcosa di vivido. La visibilità calviniana non è da intendere certo nell’accezione odierna di smania di protagonismo e ricerca di consensi (in alcun casi addirittura come sinonimo di “compenso monetario”): un racconto-tweet visibile richiama la nostra attenzione suggerendoci immagini e significati. “Le visioni polimorfe degli occhi e dell’anima si trovano in righe di caratteri” (LA p.110). Centoquaranta aggiungerei io.
E infine la molteplicità, di persone, di linguaggi, di opinioni, di suggestioni che twitter ci regala e che Calvino già si auspicava, sperando in un (iper) romanzo inteso come rete di connessioni. O cinguetti potremmo dire oggi. Soltanto abbracciando questa sterminata molteplicità – il carnevalesco bachtiniano – possiamo comprendere di più di noi stessi.
E c’è chi su Twitter oggi, raccogliendo la lezione – o meglio le Lezioni – di Calvino riesce a fare letteratura, invoglia la lettura, incentiva la scrittura. Ci sono profili twitter capaci di finire un giorno sì e l’altro pure in trend topic (la lista degli argomenti/hashatg più utilizzati), catalizzando e orientando l’interesse di migliaia di utenti. C’è @CasaLettori, la vulcanica signora siciliana che invita gli utenti a confrontarsi sui libri appena letti o i docenti universitari dietro a #scritturebrevi che quotidianamente tirano fuori l’anima scrivens dei twittatori.E poi c’è Twletteratura che parla addirittura di social reading: loro propongono un libro, gli utenti lo leggono e poi su twitter si commenta, si riscrive, si rilegge. Insieme. Ho chiesto a Paolo Costa, uno dei fondatori, se si sentono in parte gli eredi di quelle lezioni calviniane e come vedono il matrimonio tra twitter e letteratura: “Più che eredi di Calvino, ci richiamiamo alla sua riflessione sul destino della scrittura. In questo senso non consideriamo la brevità di Twitter una scorciatoia, un espediente per aggirare la complessità della grande letteratura o – peggio ancora – il tentativo di superare la forma del romanzo, classico o sperimentale che sia. La brevità, semmai, è lo strumento di cui ci serviamo per avvicinarci a quella complessità e continuare a interrogarla”.
Se queste tesi non vi avessero ancora convinti vi lascio ammaliare, in conclusione, dalla chiaroveggenza di Calvino: “Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…”. (LA, 134-5).
Non so voi, ma io quell’uccello lo vedo azzurro.[
Articolo pubblicato nel numero #61 di settembre della rivista WU magazine]