Ma un canto solitario si eleva calmo e paziente sull’intera contea: è la voce di Kent Haruf, che ci prende per mano e ci porta a conoscere le solitudini che la abitano. E lentamente scopriamo che nell’apparente tranquillità si celano i destini e le storie della gente qualunque, ognuna delle quali ci dice qualcosa di noi. Veniamo catturati dalle loro ordinarie tragedie, perché quelle tragedie sono anche le nostre. Haruf ne fa materia del canto, materia umile per un canto sublime. Forse si nasconde qui il germe della vera letteratura.
Passeggiando per Holt possiamo intravedere, dietro a una finestra, lo sguardo rassegnato dell’uomo che sta per morire senza aver chiuso i conti con suo figlio. Oppure incrociando la canonica assistere all’ennesima lite nella famiglia del nuovo pastore, inviso a quasi tutti gli abitanti della contea non abituati ad ascoltare sermoni scomodi. Per strada incontriamo i due fratellini abbandonati dalla madre in preda a gravi crisi depressive e cresciuti da un padre che sta provando a ricostruirsi una vita da solo. Passando per l’unico pub del paese facciamo la conoscenza dell’orfano che ha portato il nonno, vecchio e malandato, a spendere i soldi della pensione bevendo e giocando a carte. E se ci allontaniamo dal centro abitato troviamo la casa di una vedova e di sua figlia, che ha perso il grande amore della sua vita. Fino ad arrivare alla fattoria dei vecchi fratelli, cresciuti da soli e inariditi dal duro lavoro col bestiame, che si scoprono teneri davanti a una sedicenne rimasta incinta e cacciata di casa dalla madre.