Antonio e Vincenzo Teapot si frequentano dal liceo, poi diventano coinquilini a Roma negli anni dell’Università, fanno il classico viaggio in Spagna a base di sangria, Licor 43 e botellon, condividono amici e fidanzate, eppure non sanno niente l’uno dell’altro.
Un po’ come Elena Greco e Lila Cerullo, Antonio vede Vincenzo attraverso la lente dell’ammirazione incondizionata ma quest’ultimo non sembra farci caso, impegnato com’è a evitare il fallimento nella vita. Vincenzo (una specie di Palomar calviniano degli anni 2000) è talmente idealizzato da Antonio, che quest’ultimo si compiace pure della sua bellezza.
Fanno parte di una generazione di borghesi senza grossi problemi economici, ma con evidenti difficoltà a interpretare la vita. Nel racconto a ritroso e disordinato della loro amicizia, Antonio, che narra, si ricorda che Dragonstea Din Tei suonava in un preciso momento, che qualcuno possedeva un Nokia 7230, che lui fumava solo Lucky Strike in un dato periodo. Negli anni si passa, con esattezze geografiche e cronologiche, dall’aeroporto di Lamezia Terme a Siviglia, c’è la Sila e Firenze, ci sono le strade di Roma e i viaggi in car sharing e Italo.
In questi stessi anni, di contro, si manifestano lacune e inadeguatezze, nella vita come nel resoconto della stessa. Antonio e Vincenzo non sanno cosa dire al loro amico devastato per la morte del fratello, non hanno rapporti coi colleghi del lavoro, non sanno comunicare con donne più intraprendenti di loro e finanche le memorie legate alla perdita della verginità sono avvolte nella nebbia. Nemmeno sorprendere Vincenzo sul bordo della balaustra del terrazzo fa risvegliare Antonio dalla sua paralisi emotiva e dalla sua sfocata capacità d’interpretazione.
Escono fuori due personaggi costantemente impegnati a essere qualcosa o qualcuno, piuttosto che trovare qualcosa o qualcuno per cui vivere. Sempre vicini, ma irrimediabilmente lontani. Nell’unica volta in cui si parlano davvero si materializza infatti la fine della loro amicizia.
Vita e morte delle aragoste è il resoconto di una generazione che ha sfornato ragazzi ma non ha spiegato loro come diventare adulti, di un’amicizia idealizzata e non vissuta. Una malinconica non-storia sulla precarietà dei legami scritta magistralmente. Ogni parola è dove ci si aspetta che sia nella prosa di Nicola H. Cosentino, che già avevamo avuto modo di apprezzare nell’esordio Cristina d’ingiusta bellezza (Rubbettino 2016) e nelle incursioni sulla rivista letteraria Colla.
A Pastrengo e Voland il merito di averci fatto conoscere Vincenzo Teapot, sin dal giorno in cui ha visto infrangersi la teiera e la sua vita ha cominciato ad andare in frantumi.
“Ognuno soffre a modo suo, ed è la gravità di questa sofferenza, non la sua ragione, che conta”.