Con tutta la tecnologia che abbiamo a disposizione oggi, fare troppi straordinari al lavoro è insensato. E vantarsi di lavorare troppo sciocco e dannoso. Riappropriamoci piuttosto dell’otium dei nostri avi e impariamo a sfruttarlo per mettere a frutto la creatività
Capita spesso di scorgere su Instagram le storie di alcuni contatti che si riprendono alle 7 e mezza di sera in uffici deserti, o leggere status su Facebook di gente che si vanta di aver lavorato per dodici ore di fila. Lamentarsi del lavoro sembra essere diventato una medaglia da esibire con malcelato orgoglio, rispondere alle mail in metro al mattino o continuare riunioni interrotte al telefono in treno una prerogativa
In Germania, qualche mese fa, cinque consiglieri economici del governo hanno proposto l’abolizione della giornata lavorativa di otto ore. Che detta così sembra una cosa buona, visto che viene da pensare all’esperimento di alcune aziende svedesi passate da otto a sei ore lavorative. Qui invece il limite delle otto ore di lavoro giornaliere, stabilito per legge, viene definito “obsoleto” perché nell’era digitale “le aziende hanno bisogno della certezza che non infrangono la legge se un impiegato partecipa di sera a una conferenza telefonica e se a colazione legge le mail”. Ecco detta così la proposta tedesca risulta molto meno romantica e porta con sé due mostruose conseguenze: in primis va ad abolire il concetto stesso di orario lavorativo, scardinando un fondamento intorno a cui le società moderne da più di un secolo si sono organizzate, e ancora più grave, suggerisce l’idea che il dipendente baratti col proprio datore di lavoro non più (o non solo) le sue competenze quanto il suo tempo.
La rivoluzione digitale sta spingendo verso una sempre più frequente sovrapposizione tra vita privata e lavoro, condizione che spiana la strada a quel disturbo ossessivo-compulsivo che prende il nome di workaholism (codificato già nel 1971 dallo psicologo statunitense Wayne Edward Oates come patologia). Dare tutta la colpa al digitale non sarebbe giusto, seppur attualmente è il settore che più si presta a questa degenerazione. Ma il punto della faccenda sta nel tipo di valenza che viene dato al lavoro e di conseguenza a ciò che lavoro non è, il tempo libero.
In Giappone dal 1987 il Ministero del Lavoro pubblica le statistiche dei morti di karoshi, letteralmente morte per troppo lavoro, giusto per dare un’idea di quanto in quel paese sia diffuso morire per stress e attacco cardiaco per il carico eccessivo. Nella cultura occidentale, semplificando al massimo, il lavoro sin dall’antichità ha avuto una connotazione negativa: sofferenza e punizione per i peccati nella Bibbia, attività misera destinata a schiavi, prigionieri e donne in Egitto, Grecia, Roma e poi ai servi della gleba nel Medioevo. Più nobile era invece l’otium, insieme di attività meditative, creative e di svago a cui potevano dedicarsi i membri delle classi abbienti. Nell’otium Catone misurava la grandezza degli uomini, Cicerone scriveva le sue orazioni, Petrarca individuerà le fondamenta dell’attività intellettuale. Più tardi il cristianesimo, di contro, metterà in guardia dall’ozio collegandolo a vizi e peccato e Lutero asserirà che “l’uomo è nato per lavorare, come l’uccello per volare, mentre l’ozio e la mancanza di occupazione sono destinati a rovinare il corpo e la vita”. La rivoluzione industriale suggella infine la convinzione che il lavoro nobilita l’uomo il quale divenendo parte di un ingranaggio, di un sistema, può così trovare il suo posto nel mondo. Risultato: l’alienazione.
Siamo ormai nell’era post-industriale in cui le macchine svolgono – e svolgeranno sempre più – quasi tutte le attività pratiche e ripetitive. L’unica prerogativa che resta all’essere umano è la creatività, robot permettendo. E senza momenti dedicati unicamente al suo sviluppo che fine faremo? Secondo gli ultimi dati Ocse, in Italia lavoriamo 1.756 ore l’anno (in Francia sono 1.482, in Germania 1.371), seppur sempre da più parti suggeriscano che le ore ottimali di lavoro siano quattro. Alex Pang, consulente alla Silicon Valley, nel suo libro Rest: why you get more done when you work less (Riposatevi: perché ottenete di più lavorando di meno) sostiene che nel mondo contemporaneo bisogna superare il blocco delle otto ore che ci trasciniamo dalla rivoluzione industriale, specie per quanto riguarda i lavori creativi: “Siamo creature ritmiche, e quella parte del nostro ciclo vitale che permette al cervello di non sovraccaricarsi è altrettanto essenziale per il risultato finale”.
Lavorare meno per produrre meglio quindi, preservare maggiormente la salute e tentare di percorrere la strada verso la propria felicità. Perché se con tutta la tecnologia a disposizione abbiamo ancora bisogno di fare gli straordinari c’è qualcosa che non va. E se – come sosteneva l’antropologo Marshall Sahlins in base alle sue ricerche – anche i primitivi cacciatori-raccoglitori riuscirono a costruire “la società benestante delle origini” lavorando dalle tre alle cinque ore al giorno, forse è il caso che cominciamo a rifletterci seriamente anche noi evoluti. E che impariamo a guardare al tempo libero con meno sospetto.