Milanese, classe 1969, autore di romanzi e di saggi, intellettuale polivalente con interessi che spaziano dalla scienza alla teologia e alla metafisica. Con lui abbiamo parlato di editoria, della mancanza di una comunità e di quanto si è trasformata Milano. (Foto: Francesco Pizzo)
Già consulente editoriale per Il Saggiatore e in passato per gli Oscar Mondadori, Giuseppe Genna ha alle spalle una densa produzione editoriale dapprima incentrata su romanzi noir, thriller e spy-story d’ambientazione milanese per aprirsi poi alla literary fiction attraverso un’ibridazione di generi letterari diversi. Affascinato dalla teoria della singolarità tecnologica di Raymond Kurzweil che sostiene il prossimo ingresso delle macchine nel corpo umano, è molto attivo sulle pagine de l’Espresso.
Come ti sei avvicinato alla scrittura?
Alla fine degli anni Settanta nel quartiere in cui sono cresciuto, Calvairate, mi sono avvicinato alla cooperativa Intrapresa di Gianni Sassi, una comunità culturale molto coesa dove ho conosciuto il poeta milanese Antonio Porta. Sotto il suo magistero ho iniziato a praticare seriamente la scrittura poetica, poi sono venuti il mensile Poesia di Crocetti, Mondadori e Rizzoli. L’esordio letterario invece è arrivato nel 1996, mentre collaboravo agli Oscar Mondadori, con un libro firmato Luther Blissett e intitolato Net.gener@tion.
Il tuo ultimo libro History è uscito nel 2017 ma è ambientato nel 2018. A leggerlo oggi si ha quasi la sensazione che si riferisca già al passato.
Questo perché la nostra realtà è estremamente accelerata nella sua trasformazione, anche antropologica. Il tentativo del libro è proprio mostrare che dal punto di vista dei progressi tecnologici un anno dei nostri equivale a cinque o dieci del passato. Oggi assistiamo a un crollo potente del futuro nel presente. Il futuro viene a distorcere il presente in una forma esotica e sconcertante con cui anche l’antropologia deve fare i conti, rivoluzionandosi.
C’è un proliferare di libri distopici: marketing o esigenza narrativa?
Nonostante un grande uso del termine, io non vedo una narrazione distopica interessante da anni, a parte rari casi come China Miéville. In Italia poi non c’è terreno fertile. Il contemporaneo non è bello e automaticamente la destinazione diventa uno scenario apparentemente distopico, sdrucito, sporco. Stiamo già vivendo distopicamente. Come scrittore percepisco una disabilitazione dell’invenzione, la realtà mi sembra più calamitante. Mi sento immorale a inventare davanti a questo disegno fascista che si sta materializzando nel nostro Paese. Cosa dovrei inventare di fronte alla proposta Pillon che va a segare le gambe alle madri e ai bambini delle famiglie separate?
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