Siamo giunti stremati ma felici alla fine di questo Festivàl di Sanremo ventiventi – uno dei più lunghi degli ultimi vent’anni e quello con più ascolti dai tempi Mike Bongiorno – con la stessa soglia di attenzione della nonna di Diletta Leotta mentre ascoltava il monologo della nipote. Monologo che, ricordiamolo, parlava della bellezza come qualcosa che càpita, nel senso che a lei è capitato un fratello chirurgo estetico che le ha cambiato i connotati.
Diodato, di cui sin dalla prima serata mi ero innamorato, vince meritatamente la 70° edizione e un’altra dozzina di premi di qualità. Gabbani si becca il secondo posto e il premio Tim, che sembra un fermaporte, per il brano più ascoltato: nonostante baffetti, sorriso e protuberanze invidiabili però, diciamocela tutta, quella canzone era perfetta per il podio, ma quello dello Zecchino d’oro. Stesso discorso vale per i terzi classificati Pinguini tattici nucleari. Tosca, la cantante con più classe, si porta a casa un paio di premi, e un altro Rancore per la potenza della sua penna.
Dell’alluvionale puntata del venerdì sera l’unico episodio degno di nota è stato l’affaire Morgan-Bugo. Noi in quel momento ci eravamo lievemente appisolati, ma fortunatamente pater Pippo ci è apparso in sogno avvisandoci dell’imminente succulenza. (Aperta e chiusa parentesi: non posso accettare che Pippo non sia stato invitato neanche per sbaglio!) Si è già scritto molto su questi due scappati di casa, però davvero non riesco a capire cosa si aspettasse il buon Bugo a portarsi quel fardello di Morgan sul palco dell’Ariston, uno che negli ultimi anni ha trasformato in merda qualsiasi cosa abbia toccato. Insomma un Bugo nell’acqua. Ripetiamo ciò che avevamo scritto, anche qui con grande lucidità e lungimiranza, nella terza puntata: Morgan deve smetterla di credere alla faccenda dell’artista maledetto e forse dovrebbe prendere esempio da Sgarbi e darsi all’opinionismo televisivo, così tutti quando parleranno di lui diranno “però nel suo campo è davvero competente”, senza che questo significhi o implichi alcunché. Sono altri due i momenti della puntata di venerdì che mi preme qui segnalare per dovere di cronaca: la candida Antonella Clerici che in mondovisione dice ad Amadeus di godersi i suoi genitori fino a quando sono ancora vivi e la candida Antonella Clerici che chiede se si è sentito male qualcuno quando Bugo lascia lo studio come Tina Cipollari. Ah, poi anche la voce di Francesca Sofia Novello, valletta in quota MotoGp, melodiosa come il tubo di scappamento della moto del suo fidanzato.
Madama Civitillo non sta più nella pelle.
Zarrillo, affabile come l’impiegato delle Poste di un paesino di provincia, è giunto alla sua tredicesima edizione e spera di arrivare alla quattordicesima. Come tutti i dipendenti statali, in fondo;
La canzone di Elodie non mi era arrivata subito (come dicono quelli bravi), ma sono bastati due giorni per farla diventare la base fissa delle mie coreografie sexy sotto la doccia;
Enrico Nigiotti è stato uno dei pochi a mettere d’accordo giuria demoscopica, orchestra e sala stampa: sempre in fondo a ogni classifica;
Irene Grandi arriva sul palco con l’energia di una che non desidera altro che chiudersi in casa e mettersi a sorbire brodo di pollo bollente da un cucchiaio, ma poi apre bocca e riesce nell’impresa impossibile di convincere tutti che Vasco Rossi sia un grande paroliere;
Alberto Urso penso sia la cosa più brutta andata in onda in tv negli ultimi anni, forse più del ghigno di Di Maio, illuminato dal basso, annunziante l’abolizione della povertà. Deve ringraziare solo le signore in menopausa (molte delle quali vorrebbero Amadeus come genero), che credono che la vera musica italiana sia quella che ricorda la musica lirica, anche se non hanno mai visto un’opera in vita loro;
Marco Masini nella sua canzone Il confronto racconta dell’ardua scelta tra due oli per disciplinare la barba;
Piero Pelù, non contento di aver rubato la canzone dei The Rasmus, scende in platea a derubare una signora impellicciata della sua borsetta color argento;
Levante ha passato tutto il Festivàl a capire se è lei che fa rumore nella canzone del suo ex Diodato e per sicurezza ha fatto in modo di farne il meno possibile, infatti nessuno si è accorto di lei;
Achille Lauro ha riportato nella kermesse lo show, come ai tempi di Renato Zero, Anna Oxa, Patty Pravo. Resta da capire se la sua dichiarata battaglia contro la mascolinità tossica e a favore della gender fluidity sia un’esigenza personale o di marketing (al pari dello femminismo meneghino di Myss Keta), ma in questo contesto interessa poco, perché è innegabile che performance di quel tipo sul palco dell’Ariston abbiano un valore politico e rappresentino un passo in avanti nella comprensione di tematiche importanti da parte del grande pubblico;
La canzone di Junior Cally non era così brutta da meritare il penultimo posto, ma ormai si è talmente abituato alle critiche da averci fatto il Cally (sì lo so, era pessima, ma essere costantemente brillanti necessita di sforzi disumani tanto che da domani vorrei chiedere un mese di ferie);
Sul podio fino alla quarta serata, Le Vibrazioni si chiedono in coro Dov’è quella scatola di tranquillanti quando ieri hanno scoperto di essere arrivati quarti;
Raphael Gualazzi si piazza al posto numero 11 come i fiaschi di Sangiovese che si scola prima e dopo ogni esibizione;
Rita Pavone sulla soglia del centenario tiene il palco e il ritmo come un pony imbizzarrito: un pony di puro sangue italiano, s’intende, ma con i soldi in Svizzera;
Anastasio cambia il titolo del suo brano da Incazzato nero a Rosso di rabbia, perché quelli con la camicia nera gli hanno già causato abbastanza rogne;
Riki, povero, dolce Riki;
NOMEN OMEN: Giordana Angi, dedica una canzone alla madre, per vendicarsi del nome che le ha messo; Paolo Jannacci, è invece lì per quello che porta, così come Elettra Lamborghini che forse avrebbe fatto più fatica se si fosse chiamata Elettra Panda 4×4; e infine Rancore che, dopo essere entrato in top ten e aver vinto il premio come miglior testo, sta valutando di passare da Rancore a Letizia.