“Ho questo negozio da ventisette anni e qui intorno ho visto cambiare tutto. Nel palazzo di fronte, per esempio, c’erano solo milanesi, qui sopra pure. Poi sono morti e sono arrivati marocchini, ‘giziani, eccetera”.
“Sarà aumentata anche la concorrenza?”, domando io per evitare la deriva che comincio ad annusare.
“No, quale concorrenza? Io sono l’unico barbiere italiano del quartiere: chi vuole farsi i capelli bene viene da me”.
Galvanizzato dall’autostima del signor Francesco mi accingo a spiegargli il taglio che vorrei, che poi è lo stesso che comunico a qualunque barbiere da una decina d’anni a questa parte, dal momento, cioè, in cui ho cominciato a rassegnarmi alla mia calvizie. “Dai lati con la macchinetta, qui sui bordi un’arrotondata con le forbici e sopra giusto una spuntatina, ma poco eh”.
Il signor Francesco è andato via dalla Puglia a vent’anni, che il mestiere lo sapeva già. Il padre era un carbonaio, mi dice, e a me vengono in mente i moti e le società segrete dell’Ottocento, che ovviamente non c’entrano nulla. Suo padre, mi ragguaglia, andava nei boschi a far legna da trasformare in carbone vegetale, mestiere che oggi non fa più nessuno. Sua mamma era una casalinga, entrambi pugliesi. “Ho fatto il militare a Sanremo e poi nel 1972 sono arrivato a Milano e ho iniziato a tagliare capelli e a fare la barba”. A Cornaredo, alle porte della metropoli, ha messo su famiglia e i suoi due figli ne hanno imitato le orme, regalandogli dei nipoti. Sua moglie è pugliese come lui, mi dice, e preso dall’atmosfera famigliare mi lancio in una battuta sulle mogli e suoi buoi.
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