L’isola dentro – Parte seconda

Gli asini albini e quelli comuni ragliano avvolti dalla luce tenue del mattino. Dall’appartamento di Gianmaria suona un’opera lirica. I primi turisti stanno arrivando dalla Sardegna, la giornata promette bene. Io ed Emanuela saliamo sul fuoristrada del guardiano dell’isola che canticchia il brindisi di Traviata inventandosi le parole. Lei si siede davanti, col quaderno aperto sulle gambe, io sul sedile di dietro. Percorriamo l’altra metà dell’isola e poi attraversiamo Cala d’Oliva, il borgo fondato dai pescatori liguri nell’Ottocento, dove sorgono gli unici tre ristoranti dell’Asinara. “Questo qui a destra è il bunker di Cala d’Oliva, dove è stato rinchiuso Riina” ci dice Gianmaria. “Con lui mi sono rifiutato di lavorare, mi ero troppo affezionato ai giudici. Prima delle stragi si stava già pensando di trasformare l’isola in un parco, ma dopo quegli anni è stata completamente ripristinata la sua funzione penitenziaria. Vengono asfaltate le strade, ristrutturate le carceri e ci mandano i 41 bis e altri detenuti comuni”.

Superiamo la diramazione centrale del carcere dell’Asinara, dove Gianmaria negli ultimi anni ha allestito un museo della memoria carceraria, raccogliendo oggetti e cimeli rimasti in ogni diramazione, ricreando ambienti e vicende dell’epoca. Continuiamo l’ascesa, attraverso strade sterrate che mi fanno rimbalzare ripetutamente la testa contro il tettuccio del fuoristrada. Gianmaria ci indica delle casupole quasi diroccate dove i detenuti addetti al pascolo, i cosiddetti sconsegnati perché non sottoposti a vigilanza stretta, trascorrevano le giornate appresso alle bestie. “Gli davamo il cibo al mattino e tornavano in cella solo la sera”. I detenuti che sceglievano di lavorare, oltre al vitto e all’alloggio, ricevevano una paga e i contributi pensionistici per l’attività svolta. Un lusso, verrebbe da dire. Il mare quasi non si vede più quando superiamo il distaccamento di Case bianche e ci addentriamo nell’Elighe Mannu, letteralmente il grande leccio, l’unico bosco superstite di tutta l’isola.

“Si chiama Punta della Scomunica perché quassù un frate scomunicò migliaia di cavallette per fermarne l’invasione” dice Gianmaria una volta arrivati in cima, sul punto più alto di tutta l’Asinara. Avrei sbattuto volentieri altre cento volte la testa pur di non mancare questa vista. “Lì a nord c’è la Corsica, dall’altra parte s’intravede la Sardegna”. Mi sento inebetito, come se fossi atterrato su un altro pianeta. L’Asinara si staglia davanti a me in tutta la sua lunghezza, adagiata sull’acqua. “Quando vieni qui ti dimentichi di tutti i pensieri” continua Gianmaria e forse è vero. Facciamo la conoscenza di un altro guardiano del parco che, lassù, dal suo baracchino di legno tiene tutto sotto controllo, anche gli eventuali incendi. Più o meno come si faceva nel ‘600, dalla cima delle tre torri spagnole presenti sull’isola. “Cos’è quest’odore?” domando. “Profumo!”, mi corregge il guardiano degli incendi. “È l’elicriso” fa Gianmaria “l’Asinara ne è piena”.

Scendendo, lasciamo Emanuela a Cala Sabina di cui deve mappare la flora, e noi facciamo ritorno a Palazzo, che a dirla così mi sento già un nobile d’altri tempi. Ci si accosta un altro fuoristrada e Gianmaria parla in sardo con quello che credo sia un idraulico. C’è un galleggiante rotto da qualche parte, non capisco di più. Di ogni guasto, di ogni mancanza, di ogni problema, Gianmaria viene informato e quasi sempre tocca a lui metterci una pezza. Un quarto d’ora dopo stiamo mangiando i resti della sera prima, senza i quali io non avrei saputo come sfamarmi. Raffaella si siede a tavola con noi ma non mangia. Avvisa Gianmaria che stanno per arrivare sette ragazzi da alloggiare in foresteria ma che lei, come tutti i venerdì, sta per tornarsene sulla terraferma, se così possiamo dire. “Ok, io però adesso devo andare a sistemare una cisterna, ci vediamo dopo” dice Gianmaria e, finito di mangiare, scompare per le scale.

 

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