Una voce registrata avvisa che il treno è in partenza e che a bordo è obbligatoria la mascherina FFP2. La stoffa dei sedili è blu elettrico, intermezzata da quadratini grigi dello stesso colore dei poggiatesta. Tutto è silenzioso e pulito, e l’aria condizionata lavora ben oltre le necessità climatiche del paesino di montagna da cui stiamo partendo, Soveria Mannelli, che è poi quello in cui sono nato. Ci muoviamo in perfetto orario e per un attimo sento spirare la brezza del Canton Ticino. “Ferrovie della Calabria vi dà il benvenuto a bordo. Il treno è diretto a Catanzaro Città”. A questo annuncio segue l’elenco delle fermate che spazia tra nomi esotici come Decollatura, Serrastretta, Cicala, Cavorà, alcuni santi, San Bernardo, Santa Margherita, San Pietro Apostolo, e due irrinunciabili Madonne, di Porto e del Pozzo. Poi nulla, silenzio di tomba. Solo di tanto in tanto qualche cigolio dei freni. Lo stridore sulle rotaie che impediva a me e ai miei cugini di parlare ormai è un retaggio del passato, così come i sedili rivestiti di pelle verde, con gli squarci che lasciavano intravedere la spugna gialla dell’imbottitura. Consegnate alla storia pure le temperature roventi che il vagone raggiungeva quando la ferraglia a strisce rosse e panna in cui era avvolto veniva investita dai raggi del sole. La littorina era bollente d’estate e ghiacciata d’inverno, ma quest’ultimo semmai era un problema delle persone che dai paesi dell’entroterra andavano a studiare o a lavorare in città.
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