Quando si parla di algoritmi si potrebbe essere indotti a credere che si faccia riferimento ad accadimenti collocabili nel nostro tempo, al massimo negli anni zero di questo secolo. Eppure, astraendo e semplificando molto, anche l’uomo del Paleolitico ha imparato ad accendere il fuoco definendo e perpetuando una precisa sequenza di azioni ben definite. Mettendo a punto un algoritmo, insomma.
Certo, un milione e mezzo di anni fa la parola algoritmo non esisteva – non esisteva neppure il linguaggio se è per questo -. Eppure l’uomo primitivo era già in grado di pensare e mettere in atto procedure per risolvere i più ordinari problemi di sopravvivenza, formate da sequenze di azioni necessarie per raggiungere tale scopo. E gli algoritmi altro non sono che questo.
Le prime tracce di pensiero algoritmico le abbiamo trovate impresse su alcune tavolette d’argilla dell’antica Mesopotamia, per fare cose come risolvere un’equazione o calcolare un’area. È lì che quattromila anni fa, tra Mesopotamia, Egitto e India, nasceva l’algoritmo. Senza sapere di chiamarsi così.
Per arrivare a quel nome dobbiamo aspettare che il matematico persiano Al-Khwārizmī, vissuto nell’800 d.C. e considerato il padre dell’algebra, scrivesse un trattato sul sistema numerico indiano, poi tradotto in latino col titolo Algoritmi de Numero Indorum. E dalle tavolette d’argilla alle pergamene, alla carta stampata, il passo verso il calcolatore elettronico è davvero molto breve. Oggi gli algoritmi non vengono utilizzati più soltanto per risolvere in pochi secondi complessi problemi matematici, ma governano i computer di tutto il mondo e quindi quasi tutte le nostre attività.
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