Elegia delle famiglie sgarrupate

C’era un vento gelido che bloccava il respiro, l’altra sera, mentre andavo a portare la cena di Natale a mia nonna. Per strada ancora un po’ della neve caduta nella notte punteggiava i bordi di bianco.

Lei non mette il naso fuori di casa, lo ha deciso una ventina di anni fa quando ha stabilito di essere troppo malata per uscire. E la sera non cucina, nemmeno la sera di Natale. Dice che non ha fame ma la verità è che le scoccia. Così io e i miei fratelli, da quando facciamo le veci dei nostri genitori, sappiamo che il ventiquattro prima di metterci a tavola dobbiamo fare un fagotto per lei.

Inserisco nella toppa la chiave di cui teniamo una copia e spalanco il portone di legno mangiato dal sole e dal freddo. Tiene le gambe corte su una piccola sedia di paglia, davanti alla stufa a pellet che arde vigorosa. Ha le guance un po’ arrossate e le estremità di un foulard chiuse sul petto.

Che mi hai portato? mi chiede retoricamente. Minestra, rispondo io. Lei ride perché sa che non è vero e si alza dalla poltrona con un vigore e una velocità che non si addicono all’immagine di sé che vuole dare al mondo.

Ammazza che scatto, dico io. Hai fame?

Cosa? fa lei porgendomi l’orecchio, ma in realtà non vuole che io ripeta nulla.

In pochi secondi è in piedi, senza l’ausilio di nessuno dei due bastoni di cui solitamente sembrerebbe non riuscire a fare a meno. Con le mani paffute scarta le vaschette di alluminio per scoprire cosa mangerà quella sera, anche se lei di fame non ne ha.

Ringrazia me e i miei fratelli per quello che le abbiamo mandato, ci augura buon Natale e invoca per noi le benedizioni di Nostro Signore Gesù Cristo. Poi mi caccia di casa con la scusa di far durare il meno possibile il disturbo arrecatomi, ma la verità è che vuole mettere le gambe sotto il tavolo il prima possibile.

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