In una terra di nessuno, sospesa tra la pioggia e il buio della notte, si estende una periferia italiana cosparsa di mostri urbani non terminati e poveri cristi interrotti che scelgono i modi peggiori per guadagnarsi da vivere. È qui che Matteo Garrone ambienta Dogman ed è qui che colloca Marcello (FontePrix d’interprétation masculine a Cannes), professione toelettatore di cani, mingherlino, non bello, umile, ben voluto da tutti e contento che sia così. Si divide fra l’amore per i cani degli altri e quello per sua figlia Sofia a cui promette l’impossibile, come portarla a fare immersione alle Maldive. Nel tempo libero va a farsi una partitella a calcetto con gli amici, una pastasciutta nell’unica osteria del quartiere, una giocata alle slot machine e si fa costringere da Simoncino, ex pugile e seminatore di violenza, a prendere parte a furtarelli o a procurargli la cocaina.

Ognuno di noi nella propria vita scolastica ha avuto un compagno come Marcello (se non lo eravamo noi stessi): i capelli un po’ unti, un sorriso non armonioso, una voce poco gradevole, una leggera incurvatura delle spalle e un’andatura ciondolante. Quei compagni che fanno di tutto pur di far colpo sul resto della classe e che in un contesto violento tendono a soppiantare la propria mitezza. Per non rimanerne schiacciato, Marcello è succube infatti di un rapporto sado-masochistico con Simoncino, arrivando a scontare un anno di carcere al posto suo. Una volta uscito di prigione però realizza che nel quartiere è inviso a tutti poiché considerato un traditore e la sua proverbiale bontà lascia il posto alla vendetta. Non vuole uccidere, vuole solo delle scuse. È un cane ferito, Marcello, e improvvisamente solo e la solitudine non fa bene a nessuno.

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