Dopo le due guerre mondiali c’era l’impellente bisogno di trovare una sistemazione urgente ai tanti orfani che vagavano per strada, e una comunità che potesse prendersene cura sembrò a Zeno Saltini, un giovane prete di campagna, la soluzione migliore.
Nel 1948 questa comunità trovò rifugio nell’ex campo di concentramento di Fossoli (in provincia di Modena) e prese il nome di Nomadelfia, un neologismo coniato a partire da due parole greche e che potremmo tradurre con “legge di fraternità”. Oggi il villaggio di Nomadelfia si estende su di un territorio di circa 4 km quadrati, a 8 km da Grosseto, e ospita poco più di 300 abitanti che hanno posto a fondamento della loro vita la fraternità evangelica. Per la Chiesa, Nomadelfia è un’Associazione Privata di fedeli ed una parrocchia comunitaria, per lo Stato un’Associazione Civile, i cui membri versano nel fondo comune tutti i beni ricevuti a qualsiasi titolo. Il sostentamento della comunità è garantito da una cooperativa agricola.
A Nomadelfia non circolano soldi: tutti hanno lo stretto necessario per vivere, tutti lavorano per mandare avanti la comunità, tutto è di tutti. Le famiglie sono una cinquantina e vivono suddivise in “Gruppi Familiari”, ognuno dei quali è composto da quattro o cinque famiglie, per un totale di circa trenta persone che trascorrono le ore diurne in una casa centrale, tutti insieme, mentre quelle notturne in casette più piccole, una per famiglia. Tutti i membri della comunità hanno il dovere di educare ogni bambino, anche quelli di cui non sono genitori biologici. I ragazzi studiano in casa e se vogliono possono poi sostenere da privatisti gli esami di maturità, in accorso col Ministero dell’istruzione.
Di questa comunità, ai limiti della rivoluzione comunista ed evangelica, è stato ospite per quattro anni il fotografo Enrico Genovesi che ne ha raccontato la quotidianità e gli aspetti più intimi in una serie di scatti in bianco e nero raccolti nel libro Nomadelfia – Un’oasi di fraternità pubblicato dall’editore Crowdbooks coi contributi testuali di Franco Arminio, Giovanna Calvenzi e Sergio Manghi.
Continua a leggere su Style Magazine del Corriere della Sera