Per sentire parlare di Calabria, costantemente assente dal dibattito pubblico e dalle agende politiche, bisogna leggere (o rileggere) By the Ionian Sea, il reportage di George Gissing, appena ripubblicato da Exorma col titolo Verso il Mar Ionio. Un vittoriano al Sud, nella traduzione di Mauro Francesco Minervino. Una vita, quella di Gissing, sregolata e costellata di fallimenti: con le donne, col lavoro, con la letteratura (una produzione sconfinata, quasi un libro all’anno per 26 anni, uno “scrittore nato” per Virgina Woolf). Sgradito alla cerchia degli intellettuali del suo tempo perché in contrasto con il moralismo vittoriano, Gissing rende pubblico il suo sdegno per un’Inghilterra imperialista, maschilista, puritana, sempre più avvitata su industrializzazione massiccia, cementificazione selvaggia e sfruttamento capitalistico, di cui le miserabili condizioni degli abitanti dei bassifondi londinesi – dove lui pure ha vissuto – sono il sordido risultato.
All’apice di una vita penosa, vessato cronicamente dalla tisi, alla fine dell’autunno 1897 George Gissing dispone il suo testamento e parte alla volta di quella terra bagnata dal Mar Ionio in cui, nella sua visione romantica e di appassionato classicista, spera di trovare intatte le tracce gloriose della Magna Graecia. Convinzione amplificata dalla lettura dei resoconti di viaggio dell’archeologo francese François Lenormant che, pochi anni prima, aveva visitato la Grande Grèce e che da quel momento diventa la sua guida invisibile. By the Ionian Sea (nella presente edizione non scevro di refusi) riesce nell’impresa di restituire con schiettezza vizi e virtù dei calabresi e si distingue per la profetica capacità di intravedere, in alcune peculiarità, i problemi secolari di una regione.
LA DIGNITÀ DELL’ANFORA
Gissing salpa dal porto di Napoli a mezzogiorno del 16 novembre per raggiunge la cittadina di Paola alle 8 del giorno dopo. L’idea è quella di raggiungere Cosenza, poi spostarsi verso Taranto e da lì costeggiare il Mar Ionio fino ad arrivare a Reggio Calabria. A Cosenza è impressionato dalla bellezza della città, un’autentica meraviglia, dice, “se appena si riesce a non far troppo caso a olezzi e cattivi odori che vi si diffondono dappertutto”. Eppure la leggenda della tomba di Alarico nascosta sotto il fiume Busento, il giardino pubblico, il castello medievale e la visione in lontananza della Sila hanno la meglio. Ma a colpirlo di più sono le linee armoniche ed eleganti delle brocche per l’acqua e degli orci per l’olio che le donne portano in testa, e si convince che deve esserci per forza del buono in un popolo che si circonda di oggetti domestici di tale bellezza, al contrario di quelli pietosi che si trovano nelle case di un operaio industriale o di un lavoratore inglese medio.
A Taranto, dove fa tappa per qualche giorno, si fa più forte quella sensazione che ha già cominciato a percepire a Cosenza: la modernità edilizia è arrivata anche in una terra remota come la Calabria e le antiche vestigia sembrano sparite o destinate a soccombere. Per questo si precipita al museo archeologico dove, unico visitatore, può godere di ciò che resta dell’antica Tarentum; e poi si lancia nella ricerca del fiume Galeso cantato da Orazio, presso cui riesce a sedere immaginando il luogo ameno descritto dal poeta, con la consapevolezza che però su queste rive del Mar Ionio “si è abbattuta una grande metamorfosi”.
CROTONE, IN PAROLE POVERE
Una volta a Crotone, che ai tempi del suo viaggio si chiamava Cotrone, il desiderio è uno soltanto: andare a vedere l’unica colonna superstite del tempio dedicato a Hera Lacinia – uno dei santuari più importanti della Magna Graecia – prima che i crotonesi gli facciano fare la fine del resto del tempio, spogliato per costruirci un palazzo vescovile e poi smembrato per rafforzare il molo del porto. L’incontro col sindaco gradasso della città lo porta a riflettere sull’assenza di una vera e propria classe intellettuale nel Sud Italia e sul mantenimento feroce dello status quo tra quei pochi che possiedono potere e ricchezze. Dei poveri incontrati finora in Calabria, invece, parla con rispetto perché nonostante il misero aspetto causato dalla fatica per la sopravvivenza sprigionano grande dignità.
Con l’unica eccezione, a quanto pare, dei poveri di Crotone. Lo scrittore si sofferma lungamente sulla bruttezza dei volti dei poveri crotonesi, i più brutti mai visti nei suoi viaggi: corpi sfigurati dal duro lavoro, dalle misere condizioni abitative, dall’assenza di acqua potabile, dalla persistenza della febbre malarica. Condizioni di cui il Concordia, l’albergo “miserabile e sconfortevole oltre ogni immaginazione” dove lo scrittore dimora, è rappresentazione plastica. E in quella locanda, ironia della sorte, resterà confinato a letto per oltre una settimana a causa di febbre alta e congestione polmonare, forse malaria. Se già il vitto e l’alloggio erano penosi quando era in salute, adesso gli paiono insopportabili. A complicare la permanenza una locandiera rozza che passa tutto il giorno a sputare per terra, a litigare con la cameriera e a lamentarsi (“Ah Signore! Ah Cristo!”).
Eppure Gissing si spinge a dire che preferirebbe morire in quel “tugurio sul Mar Ionio che in uno di quei luridi scantinati di Shoreditch in cui non ebbi mai pace”. La guarigione (e la lucidità) hanno il suono di un organetto e di un canto popolare. Quella melodia, così dolce e malinconica, che sente dalla finestra racchiude tutto lo strazio e la fierezza di un popolo saccheggiato e umiliato per secoli ma che ha sempre resistito con forza alle intemperie della storia: “Commosso da queste voci di popolo […] ho chiesto perdono per tutta la mia impertinente irritazione, per le mie critiche da filisteo, per la mia impertinente ricerca di colpe. Perché ero venuto fin qui se non perché amavo questa terra e questa gente? Così diversa, così vicina?”
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